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  • g78 22/2 pp. 13-15
  • Pesca nelle acque dell’Artico

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  • Pesca nelle acque dell’Artico
  • Svegliatevi! 1978
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Svegliatevi! 1978
g78 22/2 pp. 13-15

Pesca nelle acque dell’Artico

DAL CORRISPONDENTE DI “SVEGLIATEVI!” IN NORVEGIA

LE GRIDA acute dei gabbiani e il monotono ronzio dei motori diesel colpiscono l’orecchio. Ci giungono alle narici gli odori dell’acqua salmastra e delle alghe marine, oltre agli effluvi del pesce fresco e di quello in putrefazione.

Dove siamo? A Svolvær, un villaggio di pescatori molto a nord del Circolo Polare Artico. Qui c’è una delle più grandi zone di pesca del merluzzo di tutto il mondo.

I pescherecci si stanno avvicinando al porto, con lo scafo molto al di sotto del pelo dell’acqua per il pesante carico di pesce. A terra ferve l’attività; tutti corrono al proprio posto, pronti per le operazioni di scarico e la lavorazione del pesce pescato.

Quando vidi che stavano ormeggiando alla banchina l’Havternen, “La sterna oceanica”, colsi l’occasione di parlare al capitano. È nativo delle Lofoti, un numeroso gruppo di isole situate lungo la costa settentrionale della Norvegia.

“Le zone di pesca delle Lofoti sono realmente cambiate”, spiega, “anche se si tratta ancora di operazioni gigantesche. Quando ero giovane, circa 32.000 uomini erano impegnati durante la stagione di pesca nelle Lofoti. Ora solo un decimo di quel numero”.

Pesca dello “skrei”

Appresi che grandi flotte di pescherecci vanno a pesca di skrei. Si tratta di merluzzi dai sei ai quindici anni che vengono a riprodursi dal mar di Barents, a nordest della Norvegia. Cercano un punto dove le calde acque salate dell’Atlantico portate dalla corrente del Golfo si mescolano con le acque più fredde e meno salate dell’Artico. La temperatura e la salinità che ne risultano attirano in questo punto i banchi di merluzzi verso i primi di gennaio di ogni anno. Insieme ai merluzzi arrivano i pescherecci da ogni parte della Norvegia.

Ero curioso di sapere che tipo di attrezzatura veniva usata per prendere enormi quantità di pesce. “Cento anni fa”, dice il capitano, “usavamo barche a vela e a remi, simili alle antiche navi vichinghe. Oggi usiamo motopescherecci lunghi dai sei ai venti metri. Sono equipaggiati di attrezzature tecniche perfezionate.

“La maggior parte del naviglio si serve di reti unite insieme da grandi anelli, lunghe spesso 2.000 metri. Queste reti non restano sospese verticalmente nell’acqua, ma si curvano come una vela gonfiata dal vento, per cui è più facile che i pesci rimangano impigliati nelle maglie. Altri preferiscono una rete a forma di sacco calata mentre la nave è in movimento e poi tirata su con un argano mentre l’imbarcazione è ferma. Le imbarcazioni più piccole impiegano lenze con migliaia di ami muniti d’esca. Oppure pescano usando quella che chiamiamo juksa, una sola lenza con parecchi ami da pesca. Quando il pescatore tira ritmicamente questa lenza, i pesci abboccano”.

Pensavo che essendoci tanti pescherecci al lavoro con diversi tipi di attrezzature ci sarebbe stata una gran confusione. Quando interrogai il capitano in merito, egli rispose:

“No, le operazioni di pesca sono soggette a una particolareggiata regolamentazione. L’oceano stesso è diviso in settori, e il naviglio con lo stesso tipo di attrezzatura deve rimanere entro lo stesso settore. Le motovedette fanno rispettare questa legge”.

Pesca delle aringhe

Oltre al merluzzo, un pesce che costituisce un’attrattiva per i pescatori di molte nazioni è l’aringa. Le operazioni di pesca più importanti in Norvegia sono quelle dell’aringa. Il nostro capitano ci dice: “Ed è più entusiasmante che pescare il merluzzo, perché la pesca dell’aringa è più rischiosa.

“Le operazioni di pesca cominciano quando le aringhe si spostano verso la costa norvegese per riprodursi. Restiamo nel porto in attesa. Quando la radio trasmette il messaggio che le aringhe sono in arrivo, noi usciamo dal porto. Poiché l’aringa varia in lunghezza solo da ventotto a trentatré centimetri, usiamo in genere una rete a maglie fitte. A bordo sono tutti tesi, eccitati. La radio è accesa, sintonizzata su una speciale onda, e ascoltiamo tutti con ansia le notizie sulle retate.

“Sul ponte del nostro battello occhi vigili scrutano il mare. Quando vediamo gabbiani e sterne tuffarsi in mare e risalirne con un’aringa nel becco, sappiamo che il pesce è lì. Pure utile è l’‘ecometro’. Questo strumento invia onde sonore sott’acqua e ne registra l’eco. Se un banco di aringhe fa rimbalzare le onde sonore, lo ‘vediamo’ sui nostri schermi.

“Quando ciò accade, informiamo l’addetto alla rete. È lui a decidere esattamente quando calare la rete. Prima però, insieme a un altro membro dell’equipaggio, servendosi di una piccola imbarcazione va a dare un’occhiata da vicino al banco di aringhe. Poi giunge l’ordine: ‘Cala la rete!’ Con un fischio acuto, il battello gira attorno al banco a tutta velocità, calando contemporaneamente la rete. Quando il cerchio è chiuso, la rete diventa un sacco. Ma ci chiediamo: ‘Abbiamo preso il banco, o ci è scappato?’

“Stiamo a guardare mentre la rete è lentamente e attentamente tirata su con l’argano. Quando la pesca è stata buona, nel sacco pare non ci sia rimasta acqua; solo aringhe luccicanti come l’argento. In una sola retata si possono prendere da 300 a 400 tonnellate di aringhe”.

Il pesce è tirato in secco

Osservavo con interesse mentre i barili di pesce venivano scaricati sulla riva. I pesci furono versati in un vascone, attorno al quale stavano degli uomini muniti di affilati coltelli. Ne vidi uno afferrare un pesce. Con un taglio gli aprì l’addome. Con tre rapidi movimenti della mano estrasse le interiora. Uno o due tagli ancora, e il pesce fu decapitato. In pochi secondi uova, fegato e intestini finirono in tre diversi barili, mentre la testa fu gettata in un mucchio per terra. Poi con la stessa rapidità e abilità passò al pesce successivo.

Pesato e lavato, parte di questo pesce è sistemato in grandi casse di legno, messo sotto ghiaccio e spedito per l’immediato consumo in ogni parte del paese. Un’altra parte del pesce è salata, essiccata ed esportata come “baccalà”. La maggior parte del pesce pescato (circa il 50 per cento), comunque, diventa “stoccafisso”.

Viene così chiamato perché vien fatto essiccare all’aria aperta su speciali bastoni (stock). Vi rimane fino all’estate. Allora pesa solo una piccola frazione di quando era fresco. Lo stoccafisso ha un alto valore nutritivo e non va a male con facilità. Se in una zona c’è un’improvvisa calamità, questo tipo di pesce è proprio adatto come cibo di emergenza.

“Quasi ogni parte del pesce è utilizzata in qualche modo”, ci dice il nostro amico capitano. “Per esempio, i ragazzi guadagnano bene tagliando la lingua dalle teste. Per molti, le lingue di merluzzo fritte sono una vera squisitezza sia a pranzo che per imbottire panini. Il resto della testa e altre parti vengono inviati agli stabilimenti di farina di pesce. Le uova sono congelate, inscatolate o se ne fa il caviale. Dal fegato si ricava l’olio di fegato di merluzzo, ricco di vitamine A e D”.

Stiamo depauperando le risorse ittiche?

Di questi tempi il capitano ha una grossa preoccupazione: “Stiamo sfruttando troppo le risorse dell’oceano. Parecchi tipi di pesce rischiano lo sterminio totale.

“Prendete, ad esempio, la pesca dell’aringa. Negli anni cinquanta gli oceanografi calcolarono che le riserve di aringhe invernali andavano dai quattordici ai diciotto milioni di tonnellate. Oggi sono state quasi sterminate, ed è assolutamente vietata la pesca dell’aringa invernale su vasta scala. Alcuni sono del parere che il solo modo di salvare l’aringa invernale sia di proibirne completamente la pesca. E le riserve di merluzzo nel mar di Barents, base delle operazioni di pesca nelle Lofoti, sono pure in pericolo. Sebbene alcuni affermino che il pescato attuale sia ‘buono’, gli oceanografi hanno detto che la riserva è scesa a un ‘livello paurosamente basso’”.

Chiesi in merito alla possibilità che diverse nazioni giungano a un accordo su quote comuni per preservare le riserve di pesce. “Sembra una cosa difficile da conseguire”, disse il capitano. “Un problema è di giungere a un accordo su quanto sarà permesso pescare a ciascuno. Anche se si accordassero su questo, le quote sarebbero troppo elevate. Sono tutti avidi. Un esempio degno di nota è quanto accadde con la pesca della balena nell’Antartide. Alcuni decenni fa si prendevano laggiù decine di migliaia di balene ogni anno. Oggi in quella parte del mondo la balena è quasi estinta. E tutto questo nonostante numerose conferenze, tanti accordi e decine di quote! Erano solo parole.

“Le considerazioni economiche complicano ulteriormente le cose. Il naviglio da pesca con le sue attrezzature è costoso. Tali investimenti devono rendere. Quando le riserve di pesce diminuiscono, si fanno maggiori sforzi per pescarlo. Inoltre, altre nazioni ingrandiscono le flottiglie dei pescherecci a un ritmo esplosivo. Anch’esse vogliono una fetta delle ricchezze che sono al largo della costa norvegese. Capirete che non è facile stabilire limiti al pescato”.

La pesca nelle acque dell’Artico è non solo utile all’uomo, ma è anche un’attività vigorosa ed eccitante. Il depauperamento delle risorse ittiche non dipende dall’incapacità della vita oceanica di riprodursi a sufficienza. La causa di questo problema è la stessa di tanti altri che affliggono l’umanità: l’avidità dell’uomo.

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