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  • Perché ho deposto gli arnesi dello scultore
  • Svegliatevi! 1985
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  • Una passione coltivata dalla giovinezza
  • La mia preparazione
  • Soddisfatto un desiderio spirituale
  • La prova del fuoco
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Svegliatevi! 1985
g85 8/2 pp. 24-27

Perché ho deposto gli arnesi dello scultore

SIAMO nel 1950. In mezzo agli abeti corre una tortuosa strada di montagna, con occasionali radure da cui si ammirano splendidi panorami. In un punto magnifico da cui si domina la valle e sovrastato da un dirupo rivestito di alberi, un gruppetto di persone (di cui faccio parte) è appollaiato su un’impalcatura. Stiamo scalpellando dei grossi blocchi di pietra messi insieme per formare una mole alta 15 metri. Sta prendendo forma una figura umana. Ma cosa ne verrà fuori? Un monumento ai maquis (i partigiani della Resistenza francese) caduti nella lotta contro i nazisti. Questa regione, situata a metà strada fra Lione e Ginevra, all’estremità meridionale del Giura francese, fu teatro di molti scontri durante la seconda guerra mondiale.

In seguito intrapresi un’altra professione. Ma le corde del mio cuore vibrano ancora quando odo il rumore dello scalpello sulla pietra. Come fu che deposi gli arnesi di un mestiere che amavo tanto?

Una passione coltivata dalla giovinezza

Sin dove arriva la mia memoria i miei ricordi più cari riguardano i momenti trascorsi a modellare o a disegnare. Riuscivo molto bene nei corsi di arti e mestieri, per cui nel 1945, all’età di 17 anni, mi iscrissi all’Accademia di Belle Arti di Lione, dove imparai le diverse tecniche dell’arte scultorea. Ci insegnarono a fare copie della “Venere di Milo”, della “Nike (o Vittoria) di Samotracia”, di uno degli schiavi scolpiti da Michelangelo, ecc. Imparammo anche a lavorare usando persone come modelli. In sostanza il lavoro consisteva nell’eseguire copie in creta di busti, torsi o dell’intero corpo umano. Lavoravamo a tutto tondo, cioè rappresentando soggetti liberi nello spazio, soggetti osservabili in tre dimensioni, una tecnica che si distingue dal bassorilievo, in cui le figure vengono scolpite su una superficie piana e sporgono solo di poco dal piano di fondo.

Sotto il vigile occhio del maestro Bertola, uno scultore rinomato, imparammo anche a equilibrare armoniosamente il volume, a imprigionare il ritmo delle forme aggraziate e a controllare i giochi di luce variando le sporgenze e le rientranze. Durante l’ultimo anno di scuola, ogni pomeriggio eravamo in studio a esercitarci nell’arte di scolpire la pietra. Questa sarebbe diventata la mia specialità.

Al principio degli anni ’50 cominciai a lavorare saltuariamente in uno studio di arte sacra, proseguendo contemporaneamente gli studi di scultura. Rimasi in quello studio solo pochi mesi perché il responsabile aveva concetti artistici molto diversi dai miei.

La mia preparazione

Cercherò di dire in breve come imparai a scolpire una statua. Lo scultore comincia con alcuni bozzetti che gli permettono di calcolare la forma e le proporzioni. Fa quindi un modello in creta, approssimativo e di dimensioni ridotte, che gli consente di stabilire la forma principale e la struttura dell’opera. Il successivo passo è quello più importante e più lungo, poiché si tratta di creare un modello in creta, di solito a grandezza naturale, di quella che sarà la statua finita. Prima che questo fragile modello in creta si secchi e si rompa bisogna farne un calco di gesso di cui si farà poi la trasposizione su marmo o su qualche altro tipo di pietra.

Il nostro modello in gesso era su scala di uno a cinque, per cui era alto tre metri. La nostra piccola équipe era formata di due esperti scalpellatori che facevano la maggior parte del lavoro di sbozzatura grossolana, e di due assistenti che, come me, portavano avanti il lavoro fino al punto in cui il maestro poteva dare gli ultimi tocchi.

Il lavoro in loco durò oltre tre mesi. Facemmo tutto da soli, dall’erigere l’impalcatura al forgiare i diversi scalpelli. In questo modo divenimmo molto abili nell’arte di maneggiare il martello, specie lavorando al fianco di scalpellatori così esperti. Lavorare lì era molto diverso dal lavorare allo studio, dove il delicato lavoro di cesellatura richiedeva solo di martellare leggermente con pochi e agili movimenti del polso e dove la pietra, posta al giusto livello, era su un supporto girevole per poterla maneggiare più facilmente.

Ricordo in particolare il problema di mantenere l’impalcatura vicino alla roccia che stavamo scolpendo, specie quando eravamo vicini alla cima del monumento. Gli alti pali di legno dell’impalcatura tendevano a cedere un po’. Questo complicava le cose, specie quando cercavo di scalpellare la delicata capigliatura femminile, a 15 metri da terra. La fragile impalcatura oscillava, e avevo l’impressione che la statua indietreggiasse ogni volta che picchiavo sullo scalpello!

Imparammo comunque a essere agili come scimmie e provavamo un sadico piacere a invitare i visitatori in cima all’impalcatura per dare un’occhiata da vicino alla nostra opera. Di solito, quando arrivavano in cima e scoprivano l’impressionante posizione e le tavole traballanti che avevano sotto i piedi, la loro mente era assorta in tutto fuorché nel nostro capolavoro! Bisogna anche riconoscere che un primo piano di un naso o di un orecchio di 40 centimetri non è particolarmente affascinante!

Soddisfatto un desiderio spirituale

Sul piano spirituale non progredivo tanto quanto su quello professionale. Avevo ricevuto un’educazione cattolica ma mi era molto difficile accettare certe dottrine, specie quella della transustanziazione, secondo cui nella Messa veniva servito il corpo letterale di Cristo. Discutevo spesso col mio sacerdote e un giorno, a corto di argomenti, egli mi disse che ragionavo come un protestante. Poiché mi reputavo spiritualmente invalido, pregai Dio di aiutarmi ad avere fede.

La pensavo ancora così quando nell’agosto del 1950 mi capitò fra le mani un libro intitolato Sia Dio riconosciuto verace. Mia madre, che sapeva del mio interesse per le cose spirituali, lo aveva preso un anno prima dai testimoni di Geova. A quell’epoca lo avevo appena sfogliato, dopo di che lo avevo messo in uno scaffale. Stavolta però, cominciato a leggerlo non smisi più. Lo lessi da cima a fondo. Man mano che leggevo delle diverse dottrine bibliche mi rendevo conto che tutte le domande degli anni passati avevano ora una risposta. Scrissi immediatamente all’ufficio parigino dei testimoni di Geova per avere ulteriori informazioni.

Una sera di settembre venne a casa nostra un Testimone che chiese a mia madre di me. Mia madre spiegò che durante la settimana non c’ero mai, perché lavoravo come assistente di Charles Machet, uno scultore di Lione. Da diverse settimane lavoravamo a quell’enorme scultura eretta alla memoria dei maquis del dipartimento dell’Ain, nel basso Giura. Rappresentava una donna che pareva emergere da un dirupo, spezzando le sue catene. A fianco vennero incise le seguenti parole del poeta francese Aragon: “Où je meurs renaît la patrie” (“Dove io muoio risorge la patria”).

La prova del fuoco

Ogni fine settimana tornavamo tutti a casa a Lione, e fu lì che incontrai i testimoni di Geova. Un sabato mia madre mi disse che sarebbero venuti, e vennero, puntualmente. Facemmo una lunga e animata conversazione, e li bombardai di domande su Trinità, origine del male, fine del mondo, ecc. Nel rispondere usavano continuamente la Bibbia e fu disposto di iniziare uno studio.

Nel novembre del 1950, terminati i lavori dell’enorme scultura nel basso Giura, ripresi le lezioni all’Accademia di Belle Arti di Lione. In quel periodo cominciai a studiare la Bibbia, e passai molte ore ad acquistare conoscenza dei propositi di Dio. Ma passato il mio iniziale entusiasmo, le conversazioni diventavano spesso tempestose.

La prova del fuoco giunse quando studiammo i Dieci Comandamenti. Mi fermai al secondo, riportato in Esodo 20:4, 5: “Non ti devi fare immagine scolpita né forma simile ad alcuna cosa che è su nei cieli o che è giù sulla terra o che è nelle acque sotto la terra. Non devi inchinarti a loro . . . perché io, Geova tuo Dio, sono un Dio che esigo esclusiva devozione”.

Naturalmente risposi che le immagini e i monumenti religiosi io li facevo, non li adoravo. Mi guadagnavo semplicemente da vivere. Roger e Yolande, i Testimoni che studiavano con me a quell’epoca, fecero lo stesso ragionamento di Tertulliano, scrittore del II secolo considerato uno dei padri della chiesa. Egli scrisse: “Al solito argomento: ‘Non ho altro con cui vivere’, si può ribattere risolutamente: ‘Allora hai di che vivere’. . . . ‘Faccio’, dice quel tale, ‘ma non adoro’. Come se ci fosse qualche motivo per cui si possa non adorare. . . . Le arti offrono altri mezzi di sussistenza, senza uscire dal cammino della disciplina. . . . Infatti, quanto è più facile per lo scultore rivestire una credenza!” — De idololatria, capitoli 5, 6, 8.

Col tempo fui costretto a riconoscere che avrei dovuto smettere di fare sculture di carattere religioso, o anche quelle aventi a che fare con i morti, poiché questo equivaleva a ‘rendere sacro servizio alla creazione anziché a Colui che creò’. (Romani 1:25) Questo fatto ridusse drasticamente il numero di ordini che potevo accettare per guadagnarmi da vivere. Ma nello stesso tempo condividevo il punto di vista di Tertulliano secondo cui potevo servirmi della mia arte “senza uscire dal cammino della disciplina”.

Alti e bassi

Ero ancora dello stesso parere quando nel marzo del 1951 seppi che il comune di Saint-Étienne (un grosso centro non lontano da Lione) cercava un insegnante per dare lezioni di modellatura e scultura. Il candidato sarebbe stato scelto in base ai requisiti e per mezzo di un esame pratico. Pensai che questo lavoro sarebbe stato l’ideale e feci domanda. Purtroppo fui respinto a causa del mio cattivo stato di salute, poiché nel 1948 ero stato malato di tubercolosi.

Fu un’amara delusione, ma Roger e Yolande mi incoraggiarono e mi confortarono, e cominciai ad assistere alle adunanze nella locale Sala del Regno. Nel 1951 ci fu un avvenimento importante quando assistei a Parigi al primo congresso nazionale tenuto dai Testimoni francesi nel dopoguerra. Ero pieno di entusiasmo e mi sentivo pienamente integrato in quella felice folla di congressisti. Partecipai per la prima volta all’opera di predicazione e al mio ritorno avevo preso la ferma decisione di dedicare la mia vita a Geova.

Quando arrivai a casa trovai una lettera del comune di Saint-Priest, nella zona di Lione, con cui mi veniva ordinato un lavoro in base a un modello che avevo presentato. Il bassorilievo doveva illustrare il tema dell’istruzione e sarebbe servito come motivo ornamentale per un complesso scolastico allora in costruzione. Era una buona notizia, perché il lavoro mi avrebbe tenuto occupato per diversi mesi e mi avrebbe aiutato a troncare le vecchie relazioni. In quel periodo assistei più regolarmente alle adunanze. Alcune settimane dopo, nel novembre del 1951, fui battezzato.

Fino a quel momento mio padre aveva fatto grossi sacrifici per darmi la possibilità di imparare la difficile arte della scultura e non riusciva proprio a capire perché non ce la mettevo più tutta per fare carriera. Così fui costretto ad andarmene di casa. Inoltre, quando ebbi finito il bassorilievo e consumato quello che avevo guadagnato mi fu impossibile accettare le poche ordinazioni che ora ricevevo perché ero deciso ad attenermi ai princìpi biblici.

Infine dovetti prendere la decisione che avevo sempre rimandato perché mi sembrava insopportabile. Sì, rinunciai al mio amato lavoro e smisi di fare cose ‘scolpite dall’arte e dall’ingegno dell’uomo’. (Atti 17:29) Accettai quindi un lavoro come impiegato in una compagnia di assicurazioni dove lavoro ancor oggi, trent’anni dopo.

Non mi rammarico della scelta fatta, poiché sia la mia famiglia che io abbiamo ricevuto molte benedizioni facendo parte del popolo di Geova. Ma ancor oggi non mi avvicino neppure a qualcosa che abbia a che fare con la scultura per timore che la mia vecchia passione si risvegli. Tuttavia attendo il nuovo ordine promesso da Geova dove spero che la mia arte potrà trovare qualche utile sbocco. In tal caso sarò felice di riprendere in mano gli arnesi dello scultore e ricomincerò a lavorare con mazzuolo e scalpello, solo che stavolta sarà alla gloria di Geova. — Narrato da Dominique Aimo-Boot.

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