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  • g81 22/2 pp. 13-16
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  • Scampato alla morte!
  • Svegliatevi! 1981
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Svegliatevi! 1981
g81 22/2 pp. 13-16

Scampato alla morte!

Un superstite di un disastro nel Mare del Nord narra la sua esperienza

“SENTII la piattaforma mancarmi sotto i piedi, e nel giro di pochi secondi mi trovai in acqua. Fui trascinato giù, giù, giù”, rammenta Jahnsen. Ma ne uscì vivo!

Jahn Otto Jahnsen, 23 anni, di Grimstad, in Norvegia, era a bordo della piattaforma “Alexander L. Kielland”, contenente i servizi ausiliari e gli alloggi per il personale, quando questa si capovolse nel Mare del Nord il 27 marzo 1980. Dei 212 uomini a bordo, 123 persero la vita in quello che è stato il peggior disastro che la Norvegia abbia avuto in tempo di pace in questo secolo.

La piattaforma era una colossale struttura, alta complessivamente 99 metri dai pontoni in fondo alla cima della torre di perforazione. Questo ex impianto di perforazione era stato trasformato in una piattaforma con alloggi per il personale, e si trovava a fianco della piattaforma fissa in acciaio “Edda” nel giacimento petrolifero di Ekofisk.

Quella sera Jahnsen era sceso nel piccolo cinema della piattaforma. Egli rammenta: “Udii uno scoppio, poi un altro. Dapprima pensai si trattasse di una grande ondata che aveva investito il ponte della piattaforma, perché il mare era grosso. Poi udimmo una terza esplosione, e all’improvviso l’intera piattaforma si piegò. Nel giro di qualche secondo il ponte era inclinato di 35-40 gradi”. Evidentemente un braccio si era spezzato, facendo rompere una delle cinque gambe principali di sostegno della piattaforma.

Dalla sala del cinema uscirono tutti. Ma coloro che si trovavano in una sala più grande a un piano superiore della piattaforma rimasero intrappolati, non potendo guadagnare le porte perché il pavimento era inclinato.

“Uscii in un corridoio e raggiunsi i piani superiori. Alcuni erano stati colti dal panico. Si udivano delle grida. Alcuni erano caduti e si erano infortunati, ed eravamo tutti spaventati.

“Feci in modo di aprire un’uscita di sicurezza, una porta d’acciaio. Bisognava spingerla verso l’alto ed era molto pesante. Riuscito infine a spalancarla, mi arrampicai sul ponte sdrucciolevole. Ma per quei gelidi venti gli abiti che indossavo erano troppo leggeri”. La temperatura era di cinque gradi centigradi e i venti avevano forza di burrasca.

Salendo da una scala, Jahnsen riuscì a raggiungere una scialuppa di salvataggio, nel punto più alto del ponte inclinato.

In mare!

“Alcuni scesero nella scialuppa di salvataggio, ma io non osai”, dice. “Quando fu calata, si fracassò contro la piattaforma. Per quello che mi risulta, solo uno degli uomini a bordo si salvò mentre circa dieci altri persero la vita”.

Mentre stava a guardare, Jahnsen ricevette un panciotto di salvataggio e lo indossò. Parecchi sopraggiunsero dopo di lui, ma non ce n’erano abbastanza per tutti.

“Il ponte si inclinò ancora di più e ci rendemmo conto che dovevamo buttarci in acqua”, rammenta Jahnsen. “Tentammo di scendere lungo uno dei giganteschi pozzi o gambe. Del diametro di otto metri, esso sporgeva ora dal ponte quasi in linea orizzontale, in alto sull’acqua. Doveva essere a venti metri dalla superficie. Altri frantumarono i vetri negli alloggi scendendo poi lungo le pareti”.

Ora gli avvenimenti si susseguivano in fretta.

“La piattaforma si inclinava sempre più. Ci tenevamo aggrappati a un filo metallico dello spessore di dieci centimetri che seguiva la gamba in basso. All’improvviso il filo si spezzò, emettendo scintille. Fortunatamente non ne fui folgorato. Ma un uomo accanto a me lo fu e cadde in mare”.

Proprio allora la piattaforma fu sommersa. Per fortuna, Jahnsen aveva il panciotto di salvataggio. Si dibatté nell’acqua finché tornò a galla.

L’“Alexander L. Kielland” si era capovolta. Le quattro restanti gambe della piattaforma spuntavano dall’acqua. Molti amici di Jahnsen rimasero intrappolati nelle stanze e nei corridoi all’interno della gigantesca piattaforma, a 40-50 metri di profondità.

“Avvistai un battello. Era danneggiato e pieno d’acqua, ma vi salii e in seguito tirai a bordo altri quattro uomini”, dice.

Nelle poche ore che seguirono le onde si ingrossarono alzandosi di quindici metri. I venti raggiunsero forza di uragano.

“Mentre la nostra barca era sbattuta qua e là dal vento e dalle onde, si vedevano molti uomini in mare. Alcuni erano feriti. Altri galleggiavano con la testa in giù, immobili”.

Dal ponte della vicina piattaforma di perforazione “Edda”, trenta metri più in alto, furono gettati canotti pneumatici agli uomini che lottavano per salvarsi. La maggioranza fu portata via dal vento e dalle onde, ma alcuni furono afferrati da mani robuste e usati. Jahnsen ne acchiappò uno.

“Il canotto galleggiava capovolto, ma lo raddrizzammo e riuscimmo a salirci in tre. Ci sedemmo con l’acqua fino alla vita. Ma era un canotto con una tenda sopra che ci riparava dai gelidi venti. Dopo pochi minuti riuscimmo a tirar fuori dall’acqua altri uomini, e alla fine eravamo in nove a bordo di questo canotto”.

Era accaduto tutto molto in fretta.

“Passarono solo da 10 a 15 minuti dalla prima esplosione a quando la piattaforma si capovolse, e non credo che passasse più di un quarto d’ora da quando cademmo in acqua a quando salimmo sul canotto pneumatico”.

Ma poi andarono alla deriva per circa tre ore.

“Le onde si facevano sempre più grandi. Avevamo quasi tutti il mal di mare e vomitammo. Uno aveva una brutta ferita in testa e sembrava alquanto assente, ma riusciva a sedere diritto. Più tardi avvistammo dei battelli di rifornimento. Certe volte si avvicinavano, ma le onde erano così alte che dubito riuscissero a vederci”.

Arriva un elicottero

A bordo del piccolo canotto pneumatico, gli uomini tornarono lentamente in sé e cominciarono a percuotersi e a massaggiarsi a vicenda per riscaldarsi. Il freddo era pungente. Non credevano che sarebbero stati soccorsi prima dell’alba.

“Sentivamo continuamente gli elicotteri”, rammenta Jahnsen, “ma passavano senza fermarsi. All’improvviso, verso le 23, l’apertura della tenda sul canotto fu centrata da un forte fascio di luce. Sentimmo il rumore di un elicottero avvicinarsi sempre più. Guardammo fuori e vedemmo l’elicottero volare a punto fisso sopra di noi e un uomo che veniva calato. A causa delle onde non centrò il canotto e fu ritirato su”.

L’elicottero eseguì un giro in alto e quando ripassò sopra di noi l’uomo fissato al cavo centrò perfettamente il piccolo canotto.

“‘State tutti bene?’ fu l’unica domanda. Senza attendere la risposta mise una cinghia attorno al primo di noi che fu issato sull’elicottero militare inglese. Uno dopo l’altro fummo tirati su in rapida successione, e l’ultimo ad abbandonare il canotto fu l’inglese.

“L’elicottero fece un altro rapido giro di ricognizione, in cerca di ulteriori superstiti, e poi, dopo una ventina di minuti, noi nove fummo calati sull’ ‘Ekofisk hotel’, una grande piattaforma fissa che serve esclusivamente da alloggio per il personale. Degli uomini accorsero, a due a due, per trasportarci dall’elicottero all’ospedale della piattaforma dove ci avvolsero in coperte calde, ci diedero bevande calde da bere e ci massaggiarono”.

Marinai e soldati di molti paesi parteciparono all’operazione di soccorso, la più grande mai effettuata nel Mare del Nord. Vi parteciparono 2.000 uomini e 47 navi, e 24 elicotteri e aerei presero parte alle ricerche dei superstiti.

“Fummo i primi a essere portati sull’Ekofisk hotel”, dice Jahnsen. “Tutti noi, anche quello che aveva riportato ferite, ce la cavammo bene. Alle 2,30 del mattino un elicottero ci trasportò all’ospedale Rogaland di Stavanger, in Norvegia. La mattina dopo mi permisero di lasciare l’ospedale, e la sera stessa ero di nuovo con la mia famiglia a Grimstad, 24 ore dopo l’inizio della tragedia”.

Jahnsen pensa d’essere stato fortunato. È sopravvissuto, senza danno, e non ha avuto poi nessun problema di nervi. Il suo mestiere è quello di muratore e durante la stagione morta invernale aveva cominciato a lavorare nel Mare del Nord. Ora intende restare a terra.

“Avvenimento imprevisto”

Vi erano quasi le stesse probabilità di vivere o di morire quella notte di marzo nel Mare del Nord. Fu un terribile esempio di come il caso può decidere della vita o della morte di un uomo; infatti, la Bibbia dice: “I veloci non hanno la corsa, né i potenti la battaglia, . . . perché il tempo e l’avvenimento imprevisto capitano a tutti loro”. — Eccl. 9:11.

Quando c’è un disastro, il semplice caso è spesso il fattore decisivo. Se Jahn Otto Jahnsen fosse andato al cinema grande invece che a quello piccolo, se fosse salito sulla scialuppa di salvataggio invece di scendere dalla gamba della gigantesca piattaforma, se fosse arrivato troppo tardi per ricevere il panciotto di salvataggio, se si fosse tenuto aggrappato al filo metallico quando questo si spezzò, se non avesse afferrato un canotto coperto: in tutti questi casi avrebbe potuto perdere la vita invece di salvarsi. Il fatto che era giovane, allenato e abituato alla pesca subacquea fu senz’altro d’aiuto, ma questi non furono i fattori decisivi.

In tali situazioni tutto dipende non dall’essere fra “i veloci” o “i potenti”, ma dal ‘tempo e dall’avvenimento imprevisto’. Quando ci sono tali disastri non è che Dio agisca in modo speciale, come asseriscono certi capi religiosi. Al contrario, mediante la Bibbia egli fa capire che molte cose avvengono per caso.

Per molti superstiti sfuggire alla morte fu quasi un miracolo e suscitò in loro un senso di gratitudine per il fatto d’essere vivi. Molti di coloro che leggono un racconto come questo potrebbero provare lo stesso senso di gratitudine. Dopo tutto, dovremmo essere grati di ogni giorno di vita e del tempo che abbiamo per fare un po’ di bene al prossimo e per mostrare riconoscenza al Creatore, visto che “il tempo e l’avvenimento imprevisto” capitano a tutti noi.

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