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  • Ha ‘ricordato il suo Creatore nei giorni della sua giovinezza’
    Svegliatevi! 1994 | 22 maggio
    • Ha ‘ricordato il suo Creatore nei giorni della sua giovinezza’

      “ADRIAN aveva sempre richiesto moltissima attenzione da parte mia e di mia moglie”, ha detto il padre. “A quattro anni si mise al volante della macchina di famiglia e andò a sbattere contro un albero, facendoci arrivare tutti in ritardo all’adunanza di congregazione. A cinque anni raccolse decine e decine di rane e le portò in casa. Ci vollero diversi giorni prima che riuscissimo a liberarcene. Ci sembrava di essere una famiglia egiziana durante la piaga biblica delle rane.

      “A 11 anni trovò tre piccoli procioni lungo la strada e li portò a scuola nella cartella. Quando entrò l’insegnante, la classe era in subbuglio: gli alunni erano tutti attorno alla cartella di Adrian e schiamazzavano eccitati. L’insegnante guardò cosa stava accadendo, vide i procioni e portò in macchina Adrian con i suoi animaletti in un orfanotrofio per animali. Adrian era in lacrime al pensiero di separarsi dai cuccioli, ma dopo aver visitato l’orfanotrofio e aver visto cuccioli di volpe e di altri animali ben curati, vi lasciò i piccoli procioni”.

      Il padre ha aggiunto: “Adrian non era cattivo. Era solo molto vivace. Aveva una fervida immaginazione che rendeva la vita interessante”.

      La madre ha descritto un altro aspetto di Adrian: amava la famiglia, stava volentieri in casa ed era molto affettuoso. Ecco le sue parole: “I compagni di scuola dicono che non avrebbe fatto del male a nessuno. Una compagna di classe, che prendeva lo stesso scuolabus di Adrian, aveva un piccolo handicap mentale, pur non essendo ritardata. Altri ragazzini la prendevano in giro, ma la madre ci ha detto che Adrian ha sempre trattato sua figlia con rispetto e con particolare gentilezza. Adrian era un ragazzino serio, sensibile, con pensieri profondi che non esprimeva spesso. Quando lo faceva, però, ci sorprendeva facendo osservazioni molto acute”.

      Concludendo, la madre ha detto: “La malattia lo ha fatto maturare in fretta e ha approfondito la sua spiritualità”.

      Fu irremovibile: niente sangue!

      Malattia? Sì. Tutto cominciò nel marzo 1993, quando Adrian aveva 14 anni. Gli trovarono un tumore in rapida crescita nello stomaco. I medici volevano fare una biopsia ma, temendo un sanguinamento eccessivo, dissero che forse sarebbe stata necessaria una trasfusione. Adrian si oppose. Fu irremovibile. Con le lacrime agli occhi disse: “Se mi deste il sangue non avrei più rispetto di me stesso”. Lui e la sua famiglia erano testimoni di Geova, e come tali rifiutavano le trasfusioni di sangue a motivo dei comandi biblici riportati in Levitico 17:10-12 e Atti 15:28, 29.

      Mentre Adrian era ricoverato nella clinica pediatrica del dott. Charles A. Janeway a Saint John’s (Terranova, Canada), in attesa della biopsia — da effettuare senza far uso di sangue — l’oncologo Lawrence Jardine gli chiese di spiegargli il suo punto di vista sul sangue.

      “Guardi”, disse Adrian, “il fatto che i miei genitori siano testimoni di Geova o meno non c’entra. Non accetterei sangue comunque”.

      Il dott. Jardine chiese: “Ti rendi conto che senza una trasfusione di sangue potresti morire?”

      “Sì”.

      “E saresti disposto a morire?”

      “Se non c’è altra scelta, sì”.

      La madre, che era presente a questa conversazione, chiese: “Perché prendi una simile decisione?”

      Adrian rispose: “Mamma, non conviene fare diversamente. Sarebbe stupido disubbidire a Dio e prolungare la mia vita attuale di qualche anno per poi perdere, a motivo della mia disubbidienza, la risurrezione e la vita eterna sulla terra paradisiaca di Dio!” — Salmo 37:10, 11; Proverbi 2:21, 22.

      La biopsia fu compiuta il 18 marzo. Indicava che Adrian aveva un grosso linfoma maligno. Una successiva biopsia del midollo osseo confermò il sospetto che Adrian fosse affetto da leucemia. A questo punto il dott. Jardine spiegò che l’unica speranza per Adrian era una chemioterapia intensiva associata a trasfusioni di sangue. Adrian, però, rifiutava ancora le trasfusioni. Fu iniziata la chemioterapia senza le trasfusioni.

      Ora, però, in questa fase critica della cura, si temeva che il Dipartimento per la Tutela dell’Infanzia potesse intervenire ottenendo con un’ordinanza del tribunale l’affidamento del minore e quindi l’autorità di somministrare trasfusioni di sangue. La legge riconosceva a chiunque avesse 16 anni o più il diritto di decidere da sé a quali cure essere sottoposto. Tale diritto poteva essere riconosciuto a qualcuno al di sotto dei 16 anni solo se tale persona veniva riconosciuta legalmente come “minore maturo”.

      Davanti alla Corte Suprema di Terranova

      Così la mattina di domenica 18 luglio la direttrice ad interim del Dipartimento per la Tutela dell’Infanzia avviò la pratica per ottenere dal tribunale l’affidamento. Fu subito assunto un avvocato eminente e molto rispettato di Saint John’s, David C. Day, per rappresentare Adrian. Quello stesso pomeriggio, alle 3,30, si riunì la Corte Suprema di Terranova, sotto la presidenza del giudice Robert Wells.

      Durante la seduta pomeridiana il dott. Jardine spiegò molto bene al giudice che considerava Adrian un minore maturo dotato di profonde convinzioni contro l’uso del sangue e che gli aveva promesso di non includere la trasfusione di sangue in nessuna cura. Il giudice Wells chiese al medico se avrebbe somministrato una trasfusione nel caso che questa fosse stata ordinata dal tribunale. Il dott. Jardine rispose: “No, personalmente non lo farei”. Menzionò che Adrian era convinto che la sua speranza biblica della vita eterna sarebbe stata messa in pericolo. L’onesta deposizione di questo autorevole medico fu sia sorprendente che toccante, e fece commuovere i genitori di Adrian.

      “Vi prego di rispettare me e i miei desideri”

      Quando la corte si riunì di nuovo, lunedì 19 luglio, David Day presentò delle copie di un affidavit che Adrian — impossibilitato a comparire in tribunale di persona a motivo delle sue condizioni di salute — aveva preparato e firmato per esprimere la sua volontà che il suo tumore venisse curato senza far uso di sangue o di emoderivati. In esso Adrian diceva:

      “Quando si è malati si pensa molto, e se si è malati di cancro si sa di poter morire e ci si pensa. . . . Non accetterò sangue né permetterò che venga usato; neanche per idea. So che se non viene usato il sangue potrei morire, ma è una mia decisione. Nessuno mi ha costretto a prenderla. Ho molta fiducia nel dott. Jardine. Credo che è un uomo di parola. Dice che mi curerà con una terapia intensiva senza mai usare il sangue. Mi ha detto quali sono i rischi. Me ne rendo conto. So cosa può succedermi nel peggiore dei casi. . . . Per me se mi dessero il sangue sarebbe come se mi violentassero, se violassero il mio corpo. Se questo dovesse succedere rifiuterei il mio corpo. Non lo sopporterei. Se dev’essere usato sangue, o se c’è anche solo il rischio che venga usato, non voglio nessuna cura. Mi opporrò all’uso del sangue”. L’affidavit di Adrian finiva con questo appello: “Vi prego di rispettare me e i miei desideri”.

      Per tutta la durata dell’udienza Adrian fu confinato nella sua camera d’ospedale, e il giudice Wells, molto gentilmente, andò a trovarlo lì, alla presenza di David Day. Riferendo quel colloquio, l’avv. Day ha detto che Adrian parlò al giudice con grande fermezza essenzialmente su quest’unico tema: “So di essere molto malato, e so che potrei morire. Alcuni medici dicono che il sangue mi farebbe bene. Io non ci credo, dopo aver letto di tutti i rischi che esso comporta. Che mi faccia bene o no, la mia fede è contraria all’uso del sangue. Se rispettate la mia fede rispettate me. Se non rispettate la mia fede mi sentirò violentato. Se rispettate la mia fede potrò affrontare la mia malattia con dignità. La fede è praticamente tutto quello che mi resta, e in questo momento è ciò di cui ho più bisogno per combattere la malattia”.

      L’avv. Day ha aggiunto alcune osservazioni personali riguardo ad Adrian: “Il mio assistito era capace di affrontare la sua grave malattia con pazienza, stoicismo e coraggio. Nei suoi occhi c’era determinazione, nella sua voce una fiduciosa fermezza e nei suoi modi la tenacia di chi non si arrende. Soprattutto, dalle sue parole e dai suoi gesti traspariva una fede incrollabile. Ciò che lo contraddistingueva era la fede. La malattia inesorabile l’aveva costretto a costruire dei ponti tra i suoi sogni giovanili e la realtà degli adulti. La fede l’aveva aiutato a farlo. . . . Era molto schietto e, a mio avviso, sincero. . . . Stavo attento per capire se i suoi genitori gli [avessero imposto] il loro punto di vista contrario all’uso del sangue nelle cure. . . . Mi sono convinto [che] quando diceva di voler essere curato senza sangue stava ragionando con la sua testa”.

      In un’altra occasione l’avv. Day, parlando delle convinzioni di Adrian, osservò che “per lui erano più importanti della vita stessa”, e poi disse: “Questo giovane incrollabile di fronte a simili problemi mi fa capire che tutti i miei guai non sono nulla. [Adrian] rimarrà per sempre impresso nella mia memoria. È un minore maturo dotato di un coraggio, di un acume e di un’intelligenza fuori del comune”.

      Il verdetto: Adrian è un minore maturo

      Lunedì 19 luglio l’udienza si concluse, e il giudice Wells lesse il suo verdetto, che fu poi pubblicato nel numero del 30 settembre 1993 di un periodico giuridico che si occupa dei diritti dell’uomo (Human Rights Law Journal). Eccone alcuni brani:

      “Per i motivi che seguono, le istanze della Direttrice della Tutela dell’Infanzia sono respinte; il ragazzo non ha bisogno di protezione; non è stato dimostrato che l’impiego di sangue o di emoderivati in trasfusioni o iniezioni sia indispensabile, e nelle particolari circostanze di questo caso esso potrebbe risultare dannoso.

      “A meno che un mutamento di circostanze non renda necessaria un’ulteriore ordinanza, è fatto divieto di usare sangue o emoderivati nelle cure: si dichiara inoltre che il ragazzo è un minore maturo il cui desiderio di essere curato senza sangue o derivati del sangue va rispettato. . . .

      “Non vi è alcun dubbio che questo ‘giovane’ è molto coraggioso. Ritengo che abbia il sostegno di una famiglia amorevole e premurosa, e che affronti il suo male con una grande dose di coraggio. In base al suo credo religioso è sbagliato usare emoderivati introducendoli direttamente nel corpo, per qualunque scopo . . . Ho potuto leggere un affidavit scritto ieri da A., ho potuto udire la deposizione di sua madre e ho potuto parlare ad A. di persona.

      “Sono convinto che egli crede con tutto il cuore che accettare il sangue sarebbe sbagliato e che essere costretto a ricevere sangue nelle circostanze di cui stiamo parlando sarebbe una violazione del suo corpo, della sua privacy e della sua persona, al punto che ciò avrebbe gravi ripercussioni sulla sua forza e sulla sua capacità di affrontare la terribile prova che lo attende, qualunque ne sia l’esito.

      “Trovo estremamente sensata l’affermazione del medico secondo cui il paziente dev’essere disposto a cooperare e avere un atteggiamento positivo nei confronti della chemioterapia e di altre cure antitumorali perché ci sia una qualche speranza di successo, e che se a un paziente si impone qualcosa che va contro le sue più intime convinzioni se ne limita drasticamente l’idoneità alla cura. . . .

      “Credo che ciò che è successo ad A. gli abbia dato un grado di maturità impensabile per un quindicenne che non debba affrontare quello che lui deve affrontare e sta affrontando. Credo che la sua esperienza sia la più triste che si possa immaginare, e suppongo che una delle cose che sorregge lui e la sua famiglia è la loro fede. Credo che l’accaduto abbia dato ad A. una maturità che normalmente non ci si aspetterebbe da un quindicenne. Credo che il ragazzo con cui ho parlato questa mattina sia molto diverso da un normale quindicenne, a motivo di questa tragica esperienza.

      “Credo che sia abbastanza maturo da esprimere un valido punto di vista, e me l’ha espresso . . . Sono anche convinto che sia giusto . . . che io tenga in considerazione i suoi desideri, e lo faccio. I suoi desideri sono che non si somministrino emoderivati, e io sono anche convinto che se la Direttrice va contro questi desideri in seguito a un’ordinanza di questo Tribunale, i migliori interessi [di A.] verrebbero lesi in maniera palese e sostanziale. . . . Inoltre, se — ed è una possibilità molto concreta — egli dovesse davvero morire per questa malattia, morirebbe in uno stato mentale che, alla luce delle sue convinzioni religiose, sarebbe molto triste, molto infelice e niente affatto desiderabile. Tengo in considerazione tutti questi fattori. . . .

      “Date tutte queste circostanze, ritengo giusto respingere l’istanza di usare emoderivati nella cura di A.”

      Il messaggio di Adrian al giudice Wells

      Il messaggio che questo ragazzino, il quale sapeva di essere in fin di vita, inviò al giudice Robert Wells diede prova di grande considerazione, come ha riferito l’avv. David Day: “Sarei negligente se, a nome del mio assistito, con cui ho parlato solo brevemente oggi dopo che voi avete lasciato l’ospedale, non vi ringraziassi; egli vi ringrazia dal profondo del suo cuore, e si tratta di un cuore grande grande, per aver trattato questa faccenda con prontezza, sensibilità e grande equità. Egli le è estremamente grato, Vostro Onore, e desidero che ciò venga messo agli atti. Grazie”.

      La madre di Adrian narra l’epilogo della storia.

      “Dopo il processo Adrian chiese al dott. Jardine: ‘Quanto tempo mi resta?’ Il medico rispose: ‘Una o due settimane’. Vidi mio figlio chiudere forte gli occhi e versare una sola lacrima. Feci per abbracciarlo ma lui disse: ‘No, mamma. Sto pregando’. Dopo qualche momento gli chiesi: ‘Come ti senti, Adrian?’ ‘Mamma, io vivrò comunque, anche se muoio. E se mi restano solo due settimane di vita, voglio godermele. Perciò devi tirarti su di morale’.

      “Voleva visitare la filiale canadese della Watch Tower a Georgetown. Lo fece. Nuotò nella piscina della filiale con un suo amichetto. Andò a una partita di baseball in cui giocavano i Blue Jays, e si fece fotografare insieme ad alcuni giocatori. Ciò che più conta, nel suo cuore si era dedicato a servire Geova Dio, e ora voleva simboleggiarlo con l’immersione in acqua. A questo punto le sue condizioni erano peggiorate, era stato nuovamente ricoverato in ospedale e non poteva più uscirne. Per questo motivo le infermiere benevolmente misero a disposizione una delle vasche di acciaio della sala di fisioterapia. Lì fu battezzato il 12 settembre; il giorno dopo, il 13 settembre, morì.

      “Il suo funerale fu il più grande che l’agenzia di pompe funebri avesse mai tenuto: c’erano infermiere, medici, genitori di pazienti, compagni di classe, vicini e molti fratelli e sorelle spirituali della sua e di altre congregazioni. Come genitori non ci eravamo mai resi conto di tutte le meravigliose qualità che sono venute a galla in nostro figlio mentre ha superato le sue numerose prove, né della benignità e della premura che facevano parte della sua personalità cristiana in via di sviluppo. Il salmista ispirato disse: ‘I figli sono un’eredità da Geova’. Di certo nostro figlio lo è stato, e attendiamo di rivederlo nel giusto nuovo mondo di Geova, che presto verrà stabilito su una terra paradisiaca”. — Salmo 127:3; Giacomo 1:2, 3.

      Ci sia concesso di pregustare, per Adrian, l’adempimento della promessa di Gesù riportata in Giovanni 5:28, 29: “Non vi meravigliate di questo, perché l’ora viene in cui tutti quelli che sono nelle tombe commemorative udranno la sua voce e ne verranno fuori, quelli che hanno fatto cose buone a una risurrezione di vita, quelli che hanno praticato cose vili a una risurrezione di giudizio”.

      Respingendo le trasfusioni di sangue che teoricamente avrebbero potuto prolungare la sua vita presente, Adrian Yeatts ha dimostrato di essere uno dei molti giovani che hanno messo Dio al primo posto.

  • Giovani che hanno avuto “potenza oltre ciò che è normale”
    Svegliatevi! 1994 | 22 maggio
    • Giovani che hanno avuto “potenza oltre ciò che è normale”

      SEI giovane. Hai solo 12 anni. Hai una famiglia che ami. Hai compagni di scuola a cui sei affezionato. Fai gite al mare e in montagna. Quando la notte alzi lo sguardo e vedi il cielo pieno di stelle ti senti pervadere da un senso di riverenza. Hai tutta la vita davanti.

      Poi, ad un tratto, ti dicono che hai il cancro. Una notizia del genere è dura da mandar giù a 60 anni, ma a 12 è una mazzata tremenda.

      Lenae Martinez

      Questo è ciò che ha provato la dodicenne Lenae Martinez. La sua speranza era quella di vivere per sempre su una terra paradisiaca. Questa speranza si basava sull’istruzione biblica che aveva ricevuto dai genitori, che sono testimoni di Geova. Non aveva letto lei stessa nella Bibbia che la terra sarebbe rimasta per sempre, che fu creata per essere abitata e che i mansueti la erediteranno per sempre? — Ecclesiaste 1:4; Isaia 45:18; Matteo 5:5.

      Ora si trovava in un ospedale pediatrico (il Valley Children’s Hospital) di Fresno (California, USA). Era stata ricoverata per quella che sembrava un’infezione renale. Dagli esami, invece, risultò che aveva la leucemia. I medici che avevano in cura Lenae dissero che bisognava subito trasfonderle eritrociti ammassati e piastrine e iniziare la chemioterapia.

      Lenae spiegò che non voleva sangue né derivati del sangue, che le era stato insegnato che Dio ne proibisce l’uso, come indicano i libri biblici di Levitico e Atti. “Poiché allo spirito santo e a noi è parso bene di non aggiungervi nessun altro peso, eccetto queste cose necessarie: che vi asteniate dalle cose sacrificate agli idoli e dal sangue e da ciò che è strangolato e dalla fornicazione”. (Atti 15:28, 29) I suoi genitori la sostennero nella sua decisione, ma Lenae sottolineò che si trattava di una scelta sua e che per lei era una questione molto importante.

      I medici parlarono molte volte con Lenae e con i suoi genitori. Nonostante ciò, un pomeriggio tornarono. A proposito di questa visita Lenae disse: “Mi sentivo molto debole per il dolore e avevo vomitato molto sangue. Mi rifecero le stesse domande, solo in forma diversa. Ripetei loro: ‘Non voglio né sangue né derivati del sangue. Preferirei morire, se fosse necessario, piuttosto che infrangere la promessa che ho fatto a Geova Dio di fare la sua volontà’”.

      Lenae proseguì dicendo: “Tornarono la mattina dopo. Le piastrine stavano calando, e avevo ancora la febbre alta. Capii che questa volta il dottore mi ascoltava di più. Anche se non erano contenti della mia decisione, dissero che ero una dodicenne molto matura. Più tardi entrò il mio pediatra e mi disse che gli dispiaceva, ma le uniche cose che mi avrebbero potuto aiutare erano la chemioterapia e le trasfusioni. Poi se ne andò, dicendo che sarebbe tornato.

      “Quando uscì cominciai a piangere a dirotto, perché si era preso cura di me da quando sono nata e ora mi sentivo tradita da lui. In seguito, quando rientrò, gli dissi come mi aveva fatto sentire, che mi pareva non si interessasse più di me. Questo lo sorprese, e si scusò. Non intendeva ferirmi. Mi guardò e disse: ‘Beh, Lenae, se dev’essere così, ti rivedrò in cielo’. Si tolse gli occhiali e, con dei lacrimoni agli occhi, disse che mi voleva bene e mi abbracciò forte. Lo ringraziai e dissi: ‘Grazie. Anch’io le voglio bene, dott. Gillespie, ma io spero di essere risuscitata per vivere su una terra paradisiaca’”.

      Poi entrarono due medici e un avvocato i quali chiesero ai genitori di Lenae di uscire perché volevano parlare con la ragazza da soli. I genitori lasciarono la stanza. In tutta la conversazione che seguì i medici furono molto riguardosi e gentili, e rimasero colpiti dall’eloquenza di Lenae e dalla sua profonda convinzione.

      Una volta soli con Lenae, le dissero che stava morendo di leucemia e aggiunsero: “Le trasfusioni di sangue, però, ti prolungheranno la vita. Se rifiuti il sangue, morirai nel giro di pochi giorni”.

      “Se prendo il sangue”, chiese Lenae, “di quanto prolungherò la mia vita?”

      “Da tre a sei mesi circa”, risposero.

      “Cosa posso fare in sei mesi?”, chiese.

      “Riacquisterai le forze. Potrai fare tante cose. Potrai andare a Disney World. Potrai vedere molti altri posti”.

      Lenae ci pensò un po’ e poi rispose: “Ho servito Geova per tutta la vita, 12 anni. Lui mi ha promesso la vita eterna nel Paradiso se gli ubbidisco. Non lo rinnegherò ora per sei mesi di vita. Voglio restare fedele fino alla morte. Così so che a suo tempo egli mi risusciterà dai morti e mi darà la vita eterna. Poi avrò tempo per fare tutto quello che vorrò”.

      I medici e l’avvocato rimasero visibilmente colpiti. La lodarono, uscirono e dissero ai suoi genitori che ragionava e parlava come una persona adulta e che era in grado di decidere autonomamente. Raccomandarono alla commissione etica del Valley Children’s Hospital di considerare Lenae una minore matura. Questa commissione, composta di medici e di altro personale ospedaliero insieme a un professore di etica dell’Università Statale di Fresno, concesse a Lenae la facoltà di decidere da sé a quale terapia essere sottoposta. La considerarono una minore matura. Non fu chiesta nessuna ordinanza del tribunale.

      Dopo una notte lunga e difficile, alle 6,30 del mattino del 22 settembre 1993, Lenae si addormentò nella morte tra le braccia della madre. La dignità e la calma di quella notte sono ben impresse nella mente di quelli che erano presenti. Al funerale ci furono 482 persone, tra cui medici, infermiere e insegnanti, che erano rimasti colpiti dalla fede e dall’integrità di Lenae.

      I genitori e gli amici di Lenae furono molto grati ai medici, alle infermiere e agli amministratori del Valley Children’s Hospital per la sensibilità mostrata nel discernere la maturità di questa minorenne e per il fatto che non ci fu bisogno di nessun processo per prendere tale decisione.

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